Muoversi 1 2023
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PETROLIO E RAFFINAZIONE: QUELLO CHE LE STATISTICHE NON DICONO

PETROLIO E RAFFINAZIONE: QUELLO CHE LE STATISTICHE NON DICONO

di Salvatore Carollo

Con questo articolo prende il via la nuova rubrica “L’energia spiegata”, curata da Salvatore Carollo, Oil and Energy Analyst and Trader con una lunga esperienza nel settore dell’energia. Iniziamo con un focus sul funzionamento dei mercati petroliferi e della raffinazione, prendendo spunto da quanto accaduto in questo avvio di 2023

Salvatore Carollo

Oil and Energy Analist e Trader

I recenti rialzi alla pompa dei prodotti petroliferi, benzina e gasolio, ha scatenato un nuovo dibattito tutto incentrato sulla fiscalità che grava su questi prodotti e sulle eventuali “speculazioni” nel settore della distribuzione.
A dar forza e supporto a dubbi e sospetti è stata l’osservazione che talvolta al trend in discesa del prezzo del petrolio è corrisposto quello di benzina e gasolio in salita.
Purtroppo, la vivacità della polemica politica su temi che hanno una ricaduta immediata sulle tasche dei consumatori finisce per concentrarsi su tanti luoghi comuni ed aspetti marginali, dando molto meno attenzione ai problemi strutturali del mercato petrolifero internazionale e delle sue ricadute sul sistema di approvvigionamento italiano.
Un’analisi approfondita dei dati mette in evidenza una serie di elementi su cui riflettere.

Il prezzo dei combustibili per il trasporto in Italia non è sostanzialmente diverso da quello europeo. Siamo vicini alla media dei vari paesi, anche più bassi in molti casi. Le distorsioni che gravano sul nostro sistema nazionale di approvvigionamento fanno parte di una crisi strutturale che grava su tutto il sistema petrolifero del Bacino Atlantico quindi anche su di noi

Dal petrolio ai prodotti petroliferi

Il prezzo dei combustibili per il trasporto in Italia non è sostanzialmente diverso da quello europeo. Siamo abbastanza vicini alla media dei vari paesi, anche più bassi in molti casi.
Le distorsioni che gravano sul nostro sistema nazionale di approvvigionamento fanno parte di una crisi strutturale che grava su tutto il sistema petrolifero del Bacino Atlantico e quindi anche su di noi. Ci sono delle particolarità che ci riguardano e che danno una misura della fragilità del nostro sistema di approvvigionamento.

Nelle nostre macchine e nei nostri aerei non mettiamo petrolio, ma benzina, gasolio e jet fuel. Nessuno di noi consuma direttamente petrolio: il petrolio è una materia prima e non un prodotto finito.
Questa materia prima va quindi trasformata in prodotti attraverso un complesso processo chimico-fisico su impianti industriali tecnologicamente complessi e costosi, che costituiscono l’industria della raffinazione.
L’equivalenza fra offerta di greggio e quella dei prodotti finiti può esistere solo se si dispone di una capacità di raffinazione in grado di trasformare, ogni giorno, il petrolio greggio che esce dai pozzi petroliferi nei prodotti finiti richiesti dai mercati al consumo.
Finché avremo bisogno di approvvigionarci di benzina, gasolio e jet fuel dovremo essere sicuri che ci sia abbastanza capacità di raffinazione.
Non solo, bisogna che la tecnologia degli impianti sia abbastanza complessa e sofisticata da ottenere, a partire da ogni tipo di petrolio greggio che la natura ci mette a disposizione, la qualità di benzina e gasolio che è richiesta dalle norme ambientali. Più severe sono le norme ambientali, più evoluta deve essere la raffinazione. Quella che chiamiamo “domanda mondiale di petrolio” è in realtà una sommatoria della domanda dei vari prodotti petroliferi, (benzina, gasolio, jet fuel, ecc.).
Perché ci sia un equilibrio nel sistema dei prezzi occorre che non solo l’offerta di petrolio greggio ma anche, e soprattutto, quella di prodotti finiti sia allineata alla domanda di questi prodotti sui vari mercati mondiali.
Le tensioni che vediamo oggi sul sistema dei prezzi nel mercato internazionale ci dicono che l’offerta di prodotti a valle del sistema di raffinazione non è più in grado di incontrare pienamente la domanda finale sui mercati al consumo, né in termini di volumi né in termini di qualità dei singoli prodotti offerti.
Questo problema si è sviluppato in modo preoccupante negli ultimi tre decenni, soprattutto negli Stati Uniti ed in Europa, dove sono state chiuse complessivamente circa 240 raffinerie.
Oltre il 50% degli impianti esistenti sono vicini all’obsolescenza e, a meno di investimenti importanti di revisione e potenziamento, si avviano ad essere progressivamente chiusi.
Facciamo un esempio per capire meglio di cosa parliamo. Le raffinerie degli Stati Uniti producono circa 10 milioni di barili/giorno di benzine, ma, a causa della inadeguatezza tecnologica, soltanto 3-4 milioni di benzine prodotte hanno una qualità accettabile per essere vendute sul mercato americano.
Per poter alimentare il mercato i raffinatori americani sono costretti ad importare dei componenti di alta qualità dal Sud America, dall’India e dall’Europa e mescolarli (in gergo si chiamano operazione di blending) alle benzine da loro prodotte. Senza l’importazione di questi componenti, il mercato americano resterebbe senza benzine oppure dovrebbe rinunciare agli standard di qualità ambientale introdotti nel 2000.
Nello stesso tempo, tutte le benzine che non riescono ad essere mescolate con altre di qualità superiore non possono essere vendute sul mercato interno e devono essere esportate verso paesi che ne consumano di qualità inferiore (Africa, Medio Oriente, Asia).Una lettura errata delle statistiche potrebbe far pensare che l’esportazione di prodotti dagli USA sia un segno di eccesso di disponibilità di prodotti. Al contrario è la misura della grave crisi del sistema produttivo.

Immaginiamo, per assurdo, che la UE decida che, dal prossimo mese di luglio, in Europa, l’unico tipo di carne che si possa vendere sia il filetto e la costata di manzo. Quale sarebbe l’effetto sul mercato? A partire da luglio, il prezzo del filetto e della costata schizzerebbe alle stelle, perché non ci sarebbe sufficiente offerta per coprire la domanda complessiva di carne

La domanda di prodotti petroliferi negli USA è di circa 21 milioni di barili/giorno. La capacità di raffinazione realmente utilizzabile è di circa 16 milioni di barili/giorno. Ne deriva che gli USA dovrebbero importare almeno 5 milioni di barili/giorno di prodotti finiti per coprire la domanda interna. Invece, a causa dei problemi appena descritti, gli USA sono obbligati ad importare prodotti fra 9 e 13 milioni di barili/giorno ed esportano prodotti per 4 e 8 milioni di barili/giorno.
Se ci limitassimo ad una lettura dei nudi dati statistici non potremmo capire la reale dinamica del mercato e la fragilità del sistema petrolifero americano.
Si tratta di un meccanismo che va in tilt ogni volta che c’è una crisi sui flussi internazionali o quando gli uragani obbligano le raffinerie più sofisticate del Texas e della Louisiana a fermarsi.

Il filetto e la costata

È la conseguenza di alcuni atti legislativi importanti introdotti negli Stati Uniti (Clean Air Act) ed in Europa (2001), che hanno imposto una radicale modifica della qualità dei combustili per il trasporto, intervenendo sulla composizione molecolare dei vari idrocarburi.Perché questi provvedimenti potessero funzionare, ci sarebbero voluti massicci investimenti nell’industria di raffinazione per adeguare gli impianti e metterli in grado di produrre le nuove qualità di benzina e gasolio.
È successo esattamente il contrario. Le grandi compagnie hanno abbandonato il settore della raffinazione, o chiudendo gli impianti più obsoleti o vendendoli ad operatori minori che si sono limitati a gestire l’esistente. Oggi, il sistema va in crisi costantemente.
Per questa ragione Biden, di recente, ha rivolto un appello alle compagnie petrolifere perché investano nel settore della raffinazione. L’appello di Biden è destinato a cadere nel vuoto, a causa del clima creato dal “verdismo” ideologico. Da decenni ormai è prevalsa una visione della transizione energetica che spinge l’opinione pubblica, la politica ed i governi a ritenere che la fine dell’uso delle fonti fossili per i trasporti avverrà domattina e che quindi da oggi pomeriggio possiamo evitare di occuparci dei problemi strutturali del settore petrolifero e della raffinazione. La recente risoluzione presa ad ampia maggioranza dal Parlamento europeo circa lo stop alla costruzione di veicoli a combustione interna entro il 2035 ne è una dimostrazione clamorosa. Il mercato petrolifero ha reagito a tutti questi provvedimenti con la dinamica dei prezzi tipica dei sistemi caratterizzati da presenza di numerose produzioni associate.
Immaginiamo, per assurdo, che la UE decida che, dal prossimo mese di luglio, in Europa, l’unico tipo di carne che si possa vendere sia il filetto e la costata di manzo.
Quale sarebbe l’effetto sul mercato? A partire da luglio, il prezzo del filetto e della costata schizzerebbe alle stelle, perché non ci sarebbe sufficiente offerta per coprire la domanda complessiva di carne. Ma anche il prezzo della mucca salirebbe vertiginosamente, nel tentativo di aumentare in ogni modo l’offerta di filetto e costata.
E cosa succederebbe agli altri tagli di carne che non possono essere più vendute? Bisognerà cercare di esportarli verso paesi che non hanno adottato misure simili e che si possono ancora permettere hamburger e salsiccia.
E se, progressivamente, tutti i paesi dovessero adottare la stessa legge? Ci sarebbero due risposte. Nel breve si aprirebbe lo spazio del mercato nero. Nel lungo periodo bisognerebbe provare a creare una mucca geneticamente modificata la cui carne sia equivalente a filetto e costata.
È un esempio immaginario ma dà una precisa immagine di cosa è successo nel mondo petrolifero.
Sotto la spinta del “verdismo” sono state adottate leggi che hanno scassato un settore industriale obbligandolo ad una progressiva scomparsa. La protezione dell’ambiente richiede investimenti e sviluppo tecnologico. Non basta dipingere di verde i muri delle raffinerie o fare indossare magliette verdi agli operatori.
La politica si è lasciata trascinare senza alcun senso critico. Altro che correggere le accise.
In questo clima, nessun operatore è stato ed è disponibile ad investire
decine di miliardi in un settore la cui sopravvivenza potrebbe essere di così breve periodo da non consentire il recupero degli investimenti. Si naviga a vista sperando che l’esistente rimanga in vita fino al giorno della “mitica” transizione. In caso contrario, arriveremo alla meta a dorso di mulo.
Oppure, come succede già negli USA, ad ogni crisi dovremo sospendere le norme ambientali ed ammettere al consumo prodotti più inquinanti.

Cosa non dicono le statistiche

Il caso italiano si colloca perfettamente all’interno di questo quadro internazionale. Negli anni ’60 e ’70 l’Italia e l’Olanda erano le raffinerie d’Europa che non solo rifornivano gli altri paesi europei, ma esportavano benzine verso gli USA. A partire dagli anni ’80, dopo le grandi crisi petrolifere e dopo l’introduzione di leggi ambientali severissime sulla qualità dei combustibili, la capacità di raffinazione si è più che dimezzata ed oggi non riesce più a coprire interamente i segmenti della domanda del continente, garantendone la qualità voluta. I numeri globali che appaiono nelle statistiche ufficiali non mettono in evidenza gli elementi critici presenti nel sistema industriale.
Apparentemente, a fronte di una domanda di prodotti petroliferi di circa 450 milioni di tonnellate/anno, l’Europa dispone di una capacità di raffinazione di 620 milioni, ovvero di un eccesso di capacità di circa 170 milioni. Non ci dovrebbe essere alcun problema né presente né futuro.
Leggendo criticamente i dati viene fuori, però, che gli impianti esistenti sono stati utilizzati al 78%. Ovvero, il 22% della capacità esistente sarebbe rimasta ferma.
Nell’ultimo anno, tutti i dati mostrano che i margini di raffinazione sono stati molto buoni. E sappiamo pure che sui mercati c’è stata una mancanza significativa di prodotti finiti. Ne sono prova i prezzi alti registrati da benzina e gasolio.
Come mai i raffinatori che disponevano di queste capacità aggiuntive avrebbero rinunciato a questi potenziali enormi guadagni?
Evidentemente, la realtà è diversa da quella della statistica. Infatti, siamo di fronte alla mancanza di dati aggiornati sulla capacità “nominale” di raffinazione, all’interno dei quali risultano ancora impianti che ormai esistono solo sulla carta o che non sono in grado di produrre secondo gli standard europei.

A partire dagli anni ’80, dopo le grandi crisi petrolifere e dopo l’introduzione di leggi ambientali severissime sulla qualità dei combustibili, la capacità di raffinazione si è più che dimezzata ed oggi non riesce più a coprire interamente i segmenti della domanda del continente, garantendone la qualità voluta. I numeri delle nelle statistiche ufficiali non mettono in evidenza gli elementi critici presenti nel sistema industriale

La seconda considerazione sui dati statistici riguarda i flussi di acquisto e vendita dei prodotti che sembra ripetere il meccanismo già osservato nel mercato americano.
Per coprire una domanda del mercato interno europeo di 450 milioni di tonnellate/anno, il sistema di raffinazione ha avuto bisogno di produrre 490 milioni di prodotti, ma nello stesso tempo di acquistarne sul mercato internazionale circa 300 milioni e di esportarne più o meno lo stesso quantitativo. Se si considera che i prezzi sul mercato interno e quelli del mercato internazionale sono perfettamente allineati, non sembra che questi movimenti siano avvenuti per ottimizzazioni di natura economica. Viene da pensare piuttosto ad una dinamica simile a quella già vista per il mercato americano, ovvero, molte raffinerie non sono più in grado di produrre prodotti finiti con le specifiche ambientali e di qualità richieste dalle norme europee. Solo attraverso l’acquisto di componenti di alta qualità che vengono mescolati a quelli da loro prodotti, riescono a disporre di prodotti finiti da inviare al mercato interno. Nello stesso tempo sono costretti a liberarsi delle produzioni sotto qualità (hamburger e salsiccia) inviandole ai mercati dei paesi con standard inferiori.
Il caso italiano sembra la perfetta fotografia su scala più ridotta del problema americano ed europeo. L’utilizzo della capacità di raffinazione è stato del 73%, in linea col dato europeo.
Purtroppo, non disponiamo di dati informativi sulla destinazione finale di queste esportazioni per poter qualificare meglio la natura del fenomeno.
C’è un altro dato molto preoccupante che non appare immediatamente visibile dai dati sulla capacità di raffinazione: l’età degli impianti.
Se prendessimo la lista degli impianti esistenti ed accanto ad ognuno di essi scrivessimo la data di costruzione, verrebbe fuori un quadro assolutamente drammatico. La maggior parte degli impianti è stata costruita negli anni ’60 e ’70. L’ultima raffineria costruita in Italia è stata la ISAB di Priolo nel 1976. Proprio la raffineria che sta per essere venduta ad un fondo alle cui spalle sembra esserci una società di trading internazionale che, quasi certamente, sarà più interessata ad operare sui mercati internazionali, più redditizi, piuttosto che sul mercato interno.
Per allungare la vita delle raffinerie, che comunque sono periodicamente soggette a fermate per manutenzione, per il prossimo decennio servirebbero investimenti massicci che, nel contesto culturale e politico attuale, nessuno prenderà mai in considerazione.
È tuttavia evidente che senza un upgrading tecnologico tali impianti saranno destinati a chiudere.
Dal primo clamoroso episodio del Clean Air Act del 1992, fino al voto del Parlamento europeo del giugno 2022, è stato un susseguirsi di adozione di modelli di gestione della transizione energetica sviluppato senza rispetto della neutralità tecnologica e senza considerazione alcuna per la realtà delle imprese e degli investimenti necessari.
A fronte delle conseguenze dirompenti che già si vanno delineando sul sistema di approvvigionamento dei paesi del Bacino Atlantico, si può continuare a far finta di nulla e scalmanarsi con futili polemiche sulle accise. I problemi rimangono nella loro crudezza e drammaticità e resteranno alla ribalta nei prossimi anni, facendo pagare un costo altissimo specialmente ai ceti più poveri.
Forse, la consapevolezza di questa fragilità strutturale avrebbe suggerito più prudenza da parte europea nell’inclusione dei prodotti petroliferi fra le sanzioni alla Russia.
Nei prossimi anni vedremo scatenarsi una guerra commerciale fra le due sponde del Bacino Atlantico per accaparrarsi le quote marginali di prodotti petroliferi di alta qualità.
La conquista di Priolo, avvenuta nell’indifferenza generale, potrebbe rientrare in questo scenario.
La indiscussa vittoria del “verdismo” ideologico non potrà che avere conseguenze gravi verso il nostro paese e verso gli abitanti dei paesi meno sviluppati.